Camille Claudel e la battaglia della Nike di Samotracia


itinerari estetici di daniela marra |


Sul finire dell’800, una donna dalla finestra del suo appartamento in Ile Saint-Louis, la tranquilla isoletta parigina che odorava delle mele traghettate dalle chiatte sul fiume, scuoteva uno straccio dalla polvere, fuori dall’orario ritenuto consono per i servizi domestici. Aveva un foulard legato sotto il mento e ciocche di capelli danzavano ribelli, complice il vento che trasportava i profumi della primavera. La sua voce delicatamente rauca faceva eco allo stormire dei pioppi, cantava frou frou, canzone in voga in quegli anni della bicicletta egualitaria, che aveva liberalizzato il guardaroba femminile. Il corsetto impolverato e consunto non era certo una dimostrazione di sciatteria e non curanza ma testimone di una vita consumata tra la polvere e l’argilla. Era Camille Claudel, la straordinaria scultrice dallo sguardo luminoso e febbrile. Gli occhi cangianti in perenne movimento, richiamavano ora la freschezza virgiliana dei germogli verde pallido dei boschi, ora il blu profondo del mare in tempesta; occhi selvaggi sorprendentemente affascinanti per grazia e talvolta, come descrive Gabrielle Reval, irritanti per quel fulgore, espressione di una franchezza profonda, assoluta, che non si preoccupava mai della forma né delle sfumature.

Erano passati circa dieci anni da quando la giovane Camille passava intere giornate al deposito statale di marmi affidato a Rodin, tra impalcature e drappi che scendevano in cascate di stoffa dai soffitti, era il cantiere della Porta dell’Inferno , una maestosa porta decorativa, che sarebbe stata fusa in bronzo per il Musée Arts Décoratifs. Fu in quel paradiso di polveri, che Camille Claudel conquistò, grazie al suo talento straordinario, un posto di rilievo all’interno del cantiere, dove le venivano affidati sempre più dettagli da curare. Un ritratto letterario di quel tempo è tratteggiato dal critico d’arte di Le Temps Mathias Morhardt :” resta seduta sulla seggiolina in silenzio, con aria diligente. Le interminabili chiacchiere degli oziosi la sfiorano appena. Concentrata esclusivamente sul suo compito, impasta l’argilla e modella il piede o la mano di una statuetta che ha davanti. Ogni tanto solleva la testa, guarda il visitatore con i suoi grandi occhi chiari, accesi di curiosità e, oserei dire, di ostinazione. Poi riprende subito il lavoro che ha interrotto. “Gli occhi di Camille, nella continua tensione verso l’infinito, nella loro selvatichezza fuori dal comune, riflettevano la sfida d’arte e di vita a cui l’artista non avrebbe mai rinunciato, e sono il simbolo di quell’oltre, che solo una donna consapevole del proprio genio poteva intravedere.  Il trasferimento di Camille sulla tranquilla isoletta parigina, lontana dal clamore del centro, fu figlia della decisione di allontanarsi da Rodin, con cui ebbe una relazione complessa, che mescolava amore, passione, stima e una differente visione creativa. Rodin fu per la donna un amore impetuoso, distruttivo e totale, ma non si sostituì mai al suo sogno e alla sua affermazione d’indipendenza, che pagò a caro prezzo.

Nello Studio di Rodin si annegava tra i disegni che ne ritraevano i particolari, quando l’ispirazione si ancorava, il maestro iniziava a scolpire furiosamente o a modellare vertiginosamente la sua musa in ogni posa ed espressione. L’ardore sembrava fagocitare tutta la vita dello scultore, come appare evidente in alcune lettere: “ mia feroce amica, la mia povera testa è ben malata, e non riesco più ad alzarmi la mattina: questa sera ho camminato senza trovarti nei nostri luoghi. Come mi sarebbe dolce la morte! (…) Abbandono il Salon, la scultura…ci sono momenti in cui credo ti dimenticherò. Ma poi, in un solo istante, sento la tua terribile potenza. (…) E’ finita divinità malefica, e tuttavia ti amo furiosamente.” Mentre Rodin soffocava nello struggimento, suo figlio leggittimo, Camille rimaneva fedele al suo più grande amore, la scultura, e lavorava incessantemente al gruppo di Sakuntala, che vide la luce nel 1888. Rodin non aveva mai mantenuto le sue promesse d’amore, che avvelenarono il loro amore. Instancabile conciliatore rinviava gli scontri e i drammi, allontanandosi sempre di più da Camille, che non contemplava la debolezza e la mediazione. Il temperamento di Rodin è lo specchio delle sue scelte artistiche: preferisce il morbido passaggio dall’ombra alla luce senza soluzioni brusche e non conduce la sua ricerca estetica sul movimento, che invece è uno degli elementi caratterizzanti della Claudel.  Come nell’arte bisogna saper sacrificare, affermava Rodin, così nella vita rinuciò al sogno tumultuoso del fuoco eterno della passione, che rimase incompleto, avendo preferito le tiepide braccia della moglie, la semplice e fedele Rose Beuret.

Sakuntala fu esposta nel 1888 al Salon; il primo gruppo scultoreo di Camille Claudel possiede una grandiosa potenza generatrice, palpita di vita, lo spirito e la carne si fondono in una spirale di mistica sensualità, un perfetto equilibrio tra maschile e femminino,  eccezionale espressione creativa di Animus e Anima. Lo spirito è tutto, l’uomo in ginocchio è puro desiderio, il viso sollevato anela, stringe, prima ancora di riuscire a possedere questa creatura meravigliosa, queste sacre carni che uno spirito superiore gli sottrae…Impossibile trovare qualcosa di più ardente e più casto. (Paul Claudel).  Ispirata, come Puccini per la Turandot, dalla leggenda indiana della sacerdotessa Sakuntala, la scultura della Claudel esprime l’abbandono sensuale e tenero degli amanti dopo un percorso tragico di sofferenza, che a lungo li aveva separati. Quanta autobiografia l’animò? L’ardore, il lamento soffocato, la passione e la castità, non erano forse tutte le emozioni da cui Camille era avviluppata?  Anche se schiacciata sotto il velo soffocante di Rodin, mai smise di lottare per imporre la sua personalità e indipendenza artistica. Rifutò una mostra a Praga al fianco di Rodin con queste taglienti parole: “ è vero che a Praga, se accettassi di esporre a fianco di Rodin, in modo da tenermi al guinzaglio e far credere che le mie opere siano dovute alla sua ispirazione, avrei qualche possibilità di successo, ma sarebbe un successo che, venendo da lui, tornerebbe indietro a lui.” (Paris e la Chapelle cit. p.264)

La separazione, che molti considerano causa della pazzia di Camille Claudel, fu in verità un momento di rinascita per l’artista, che, libera finalmente dalla pressione ingombrante dell’arte di Rodin, sfidò i pregiudizi limitativi della società ottocentesca. Non a caso questi furono gli anni di maggiore produzione artistica, ma anche gli anni in cui una donna indipendente, volitiva e indomabile, camminava per le vie parigine alla ricerca d’ispirazione, ritornando  sempre da sola al suo appartamento tra gatti, argille, polvere e umidità. Appariva senz’altro sconveniente al vicinato, alla famiglia e alla società, che mal sopportavano quella donna di genio, creatrice e selvaggia, non imprigionabile in alcuna categoria conosciuta e perciò ritenuta finanche pericolosa. Così iniziarono gli anni della solitudine, lontana dai circoli artistici di Parigi,  sembrava consumarsi nella creazione: la Valse, estasi di movimento, Perseo e la Gorgone, l’intimista Les Cuseuses, la versione marmorea di Sankuntala e tante altre, furono le opere di un periodo dalla grande vivacità creativa. Spostare marmi, respirare polveri, essere continuamente vessata dal pregiudizio, affamata dalle mancate committenze dell’ingannevole sovraintendenza, che promettevano guadagni illusori, resero Camille sempre più debole e sciupata, ossessionata da un complotto di Rodin. Le difficoltà economiche si facevano insormontabili e le condizioni di salute sempre più precarie. Tuttavia Ile Saint-Louis immersa nella tranquillità divenne per Camille l’isola dei ricordi, l’eco lontano di Villeneuve, la dimora della suainfanzia, dei primi modelli creati da bambina nella fabbrica di argilla del nonno e delle magiche esplorazioni con il fratello Paul a Hotte du Diable, dove passava momenti interminabili a osservare le imponenti rocce calcaree modellate dal vento. Fu il visionario Alfred Boucher, che colse in quelle piccole mani un talento fuori dall’ordinario e spinse il padre di Camille a farla studiare a Parigi. Le donne erano accolte con limitazioni nelle accademie private e Camille, entrata nell’Accademia Colarossi, preferì presto la libertà di un modesto atelier, allestito insieme a due amiche, piuttosto che scendere a compromessi. Erano gli anni dei salotti del martedì di Mallarmè, dove Camille partecipava non sempre volentieri con il fratello Paul, talvolta soffocata da quell’atmosfera rarefatta e ispirata che mal si accordava con il suo umorismo sottile e la sua figura di donna artefice. Paul invece ne era attratto per l’ambivalente perdizione delle lettere, proprio lui che si rivelò il maggior censore di Camille e la condannò più di ogni altro alla morte in vita. Esistono molti modi per uccidere e l’assassinio è solo uno di questi. Paul fece della sorella una martire moderna, una peccatrice da redimere; pur esaltando la sua arte, da fervente cattolico voleva purificarla attraverso l’espiazione. L’arte senza una guida, la fede, era inconcepibile, demoniaca, distruttiva e divorante. Paul accusò addirittura Camille di possessione, tant’è che chiese un esorcismo a distanza in una lettera indirizzata a Daniel Fontaine. Camille scolpiva incessantemente, lavorando senza tregua, e mossa dalla delusione distruggeva le sue opere, chiudendosi in un isolamento volontario, che presto si tramutò in angoscia per raggiungere l’infinito.  Ma Camille Claudel non era pazza, era fuori dal tempo, in perenne battaglia con i suoi limiti, in aperta e continua sfida con le debolezze più nascoste della solida società borghese e della famiglia conservatrice. La condanna di insanità morale in breve tempo fu trasformata in insanità mentale e fu sufficiente un certificato medico e la firma del fratello per internala.  Il 10 Marzo 1913 fu prelevata dalla sua abitazione contro la sua volontà, ignara dei trenta lunghissimi anni, che avrebbe trascorso negli ospedali psichiatrici, in un tempo sospeso, isolata, tra grida, freddo e fame. Passava il tempo a scrivere lettere mai consegnate e ad aspettare risposte che non sarebbero mai arrivate.  Tuttavia il suo urlo silenzioso di libertà si alzò ancora una volta, in aperta sfida. L’avevano privata di tutto, ma non della possibilità di urlare “no!”. Così Camille gridò la sua assenza dal mondo e consacrò la sua morte per scelta, rifiutandosi di scolpire in manicomio.

Incarnazione della Nike di Samotracia dalle ali spiegate, che pur acefala e senza braccia, colpisce per la maestosa potenza, Camille Claudel dalle braccia ormai mute risplende ancora oggi nell’immensità delle sue ali.

2 thoughts on “Camille Claudel e la battaglia della Nike di Samotracia

  1. Storia stupendamente scritta e raccontata. Itinerario d’arte femminile che vince in fiera libertà contro la possessività maschile di amante e fratello. Storia di una artista davvero emblematica della conquista femminile dello spazio artistico. Divinamente scritta da te, questa mirabile e tragica storia di rivalsa. Complimenti davvero, Daniela.

  2. Storia stupendamente scritta e raccontata. Itinerario d’arte femminile che vince in fiera libertà contro la possessività maschile di amante e fratello. Storia di una artista davvero emblematica della conquista femminile dello spazio artistico. Divinamente scritta questa mirabile e tragica storia di rivalsa. Grazie Daniela.

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