Ora è tutto più definito. O almeno più delle scorse ore. Il disastro di questi giorni nella Comunità Valenciana e nelle zone limitrofe è, senza dubbio, il peggiore degli ultimi vent’anni e uno dei più gravi degli ultimi decenni, assieme all’alluvione del Vallès, nell’area Barcellona, dove nel settembre del 1962 morì un migliaio di persone, e allo straripamento del fiume Turia, che nell’ottobre del 1957 provocò 87 morti sempre a Valencia (proprio per questo in seguito il suo corso fu deviato fuori città).
Sappiamo che tra le decine di persone che risultano ancora disperse ci sono almeno due agenti della Guardia Civil impegnati nei soccorsi. Il ministro della Politica territoriale della Comunità Valenciana, Ángel Victor, ha detto che più di 1.100 soldati sono stati mobilitati per dare assistenza. Il ministero della Difesa invece ha messo a disposizione strutture temporanee che possano servire come obitorio: il timore è che una volta rientrate le inondazioni emergeranno altri cadaveri. L’associazione di agricoltori valenciani ha inoltre segnalato «perdite catastrofiche con conseguenze incalcolabili».
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Ci si domanda ora se tutto questo scempio si poteva evitare. Ma in mezzo c’è una zona di bassa pressione isolata, che gli spagnoli chiamano DANA e che ha causato temporali intensi e prolungati. Le persone morte a causa delle gravi alluvioni nel sud-est della Spagna sono il sacrificio del peggiore disastro di questo tipo della storia recente del paese. Nelle ultime ore si contano almeno 205. Il Centro di coordinamento integrato ha comunicato quelle trovate morte nella Comunità Valenciana, la regione autonoma dove si trova Valencia, sono 202. A loro si aggiungono due donne che erano state trovate morte tra martedì 29 ottobre e mercoledì 30 ottobre nella Comunità di Castiglia-La Mancia, e un uomo britannico morto a Malaga, in Andalusia. Fra martedì e mercoledì moltissime persone hanno cercato di ripararsi salendo sui tetti delle case o sui camion, in attesa dei soccorsi, per evitare di restare intrappolate all’interno degli edifici. Altre si sono rifugiate nei centri commerciali oppure sono rimaste sul posto di lavoro o nelle loro auto, con l’enorme rischio di essere trascinate via dalle piogge torrenziali. Martedì 60 persone hanno trovato rifugio nella prigione di Picassent, vicino a Valencia, e ci sono rimaste fino a giovedì, quando le squadre di soccorso hanno aperto un varco per far uscire loro e altri 140 dipendenti. Il numero del servizio di emergenza del 112 ha rischiato il collasso a causa della quantità di chiamate ricevute, e molte persone bloccate hanno chiesto aiuto attraverso i social network.
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La città con il numero più alto di morti, almeno 62, è Paiporta, che si trova una decina di chilometri a sud-ovest dal centro di Valencia. Martedì 29 ottobre scorso sera l’acqua che ha alimentato l’alveo del fiume Poyo – normalmente quasi in secca – è straripata travolgendo a una velocità impressionante auto, oggetti e persone nella città. Ancora adesso la situazione nel comune è molto difficoltosa, anche per la mancanza di beni di prima necessità. Molte persone morte si trovavano in automobile e stavano cercando di andare al riparo, quando l’acqua ha inondato le strade e l’autostrada A3. Giovedì 31 ottobre la sindaca di Chiva Amparo Fort ha detto che nel comune c’erano ancora centinaia di auto ribaltate e che si temeva che dentro ci fossero delle persone. Altre sono morte nei propri garage, dove erano andate per spostare l’automobile: è successo a 8 persone a Valencia, nel quartiere La Torre. Le operazioni di soccorso procedono ancora a rilento perché molte località sono ancora allagate o ricoperte di fango. Le strade sono interrotte o bloccate dalle decine di auto trascinate dal fango e accatastate sulla carreggiata; anche se il numero complessivo non è ancora quantificabile con certezza, ci sono migliaia di sfollati e decine di dispersi. Per dare assistenza alla popolazione sono stati mobilitati altri 500 soldati, oltre a quelli che erano già impegnati nei giorni scorsi assieme ai vigili del fuoco e alla Guardia Civil. Venerdì 1 novembre il governo ha mandato a Valencia anche 10 esperti di patologia forense, insieme a 5 tecnici del settore, per aiutare le autorità locali a identificare i corpi recuperati: si sono aggiunti a 21 tra esperti e tecnici che erano già andati nella Comunità Valenciana. Il disastro ha lasciato l’Europa sbigottita dacché è andato ben oltre ogni più allarmante previsione.
Tra le riflessioni a caldo più acute ci preme segnalare quella di Guido Viale. «Il disastro di Valencia – ha scritto Guido Viale – ci dispiega sugli schermi il futuro di noi tutti. Sarà così nelle conseguenze, anche se in modi differenti, sempre più spesso e ovunque, ora qui e ora là. Alcune cose sono certe: il progressivo scioglimento delle calotte e dei ghiacciai che renderà irregolare il flusso dei fiumi e incontrollabile l’innalzamento di mari che sommergeranno molte città e interi Paesi, la desertificazione e le temperature intollerabili che renderanno invivibili larghe parti di diversi continenti. Altre, come le alluvioni, gli incendi, gli uragani sono aleatorie, ma si moltiplicheranno in frequenza, estensione e intensità. Il fatto che abbiano colpito una volta non vuol dire che non possano ripetersi a breve, come ci insegnano i ripetuti disastri della Romagna. E questo anche se per miracolo l’emissione di gas climalteranti si fermasse domani. Sono stati innescati dei meccanismi che continueranno a produrre e moltiplicare i loro effetti perversi per decenni».
«Da almeno trent’anni – prosegue Viale – gli esperti ci hanno insegnato la distinzione tra meteo e clima: il primo è una manifestazione locale, concentrata o estesa, il secondo è globale e riguarda tutto il pianeta. Eppure, ogni volta che si verifica un “evento estremo”, anche i più famosi meteorologi ci forniscono alla Tv o sui giornali solo delle spiegazioni tecniche del perché la cosa si è verificata proprio lì: per esempio la bolla di freddo che si è fermata sul cielo dell’Andalusia. Ma al fatto che ciò abbia a che fare con il clima dedicano al massino un piccolo accenno (i giornali di destra, pervicaci negazionisti, nemmeno quello. Anzi, fanno scomparire anche Valencia dalla prima pagina). Hanno anche loro, i meteorologi da intervista, come tutti, paura di spiattellare la nuda verità, che è talmente grave e grande che nessuno sa veramente come affrontarla, perché bisognerebbe urlare dai tetti, non che il tempo stringe (quello ormai lo dicono in molti, anche se forse è già troppo tardi), ma che bisogna cambiare alla radice il modo di vivere e convivere, di produrre e consumare. Il disastro di Valencia ci ha colpito per il numero dei morti, anche se non sappiamo ancora quanti: certamente meno di quelli di un giorno di guerra in Ucraina o di una settimana a Gaza. A questi ci stiamo ormai abituando, a quelli del “meteo”, non ancora, ma ci abitueremo. Anche perché sono destinati a crescere e a superare quelli delle guerre (che al deterioramento del clima portano comunque il loro contributo). Oltre al numero dei morti (che non vediamo) quello che più ha colpito l’immaginazione sono le centinaia se non migliaia di auto accatastate una sull’altra dalla furia delle acque. E’ l’immagine che ci restituisce meglio l’insensatezza del nostro modo di vivere e la sua fine; la congestione del traffico in cui è immersa la nostra vita quotidiana trasformata in un ammasso quasi inamovibile di fango e ferraglie. Ma è anche quella che dovrebbe avvertirci che per fare i conti con il clima e con la crisi ambientale non basta più la mitigazione (la soppressione delle cause, cioè dei combustibili fossili, di cui tutti i governi del mondo si occupano con periodiche adunate di decine di migliaia di funzionari, esperti, lobbisti e giornalisti – la prossima è a Baku, in Azerbaigian – che in 32 anni non hanno concluso nulla), ma che dobbiamo impegnarci di più nell’adattamento: la convivenza con un clima e un meteo che continueranno a rendere sempre più difficile la nostra esistenza. Ma che, by the way, è anche l’unica via realistica per promuovere una mitigazione “dal basso”, visto che quella “dall’alto” non arriva mai. L’auto personale resta ancora il simbolo più evidente del consumismo e l’aspirazione più importante di chi ancora non ce l’ha, ma anche la causa principale del consumo di suolo, della sua cementificazione e dello stravolgimento dei territori che trasformano le alluvioni in disastri. Per molte vittime della Dana di Valencia l’auto si è trasformata in una bara, per molte di più in un disastro economico: non tutti avranno il denaro per ricomprarne un’altra alimentando la domanda del settore, che langue (bisognerà prima pensare alla casa, o al lavoro). Ma è l’occasione per farsi qualche domanda. Troveranno dei mezzi alternativi per muoversi? Le autorità locali saranno in grado di fornirli, visto che finora non lo hanno fatto? E se tutte le auto fossero state elettriche, sarebbe cambiato qualcosa? E vale la pena tornare a intasare le strade, magari con delle auto elettriche, se la città resta comunque esposta allo stesso rischio? L’auto però è solo una metafora di un sistema di vita (in questo caso, di mobilità) assurdo, incompatibile con il clima e il meteo che ci aspettano. Esistono delle alternative all’auto privata, come a molti altri prodotti e ad altre opere insostenibili, ma bisogna provvedere a sostituirle prima: prima del disastro, per non ritrovarsi paralizzati dopo. Non si tratta solo di dare gli allarmi “per tempo”. Bisognerebbe per lo meno preparare dei ricoveri sicuri per la gente e per i beni e i mezzi indispensabili e delle squadre di soccorso adeguate, formate da volontari addestrati e magari anche da militari preparati a salvare vite invece di distruggerle. Siamo tutti molto indietro, ma bisogna per lo meno cominciare a pensarci e a parlarne come della cosa principale che ci troviamo a dover affrontare. Dovrebbero cominciare a farlo i meteorologi a cui capita di commentare ciò che succede, magari senza suggerire a otto miliardi di umani di “salire in montagna”».