Non è affatto un mistero. Le elezioni che si sono svolte recentemente nel Regno Unito ed in Francia si sono dimostrate di portata storica dacché di eccezionale rilevanza non solo per i Paesi direttamente interessati. La vittoria storica dei laburisti a Londra, per quanto ampiamente annunciata e, contemporaneamente, l’esito imprevedibile fino a poche ore prima del voto di ballottaggio in Francia, hanno ribaltato la narrazione che vedeva la destra, anche la più estrema, lanciata in una marcia trionfale apparentemente inarrestabile. Si tratta di una inversione di tendenza? Forse è presto per dirlo. Non solo. Resta l’incognita cruciale del voto americano che in autunno è destinato a cambiare da una parte o dall’altra i percorsi della storia contemporanea e non solo in America. Per esempio sul destino della guerra russa all’Ucraina, sui rapporti con la Cina, sul futuro della Nato. Tuttavia al momento il quadro europeo, considerando sotto questo profilo anche la Gran Bretagna che dalla Unione Europea ne è uscita, è radicalmente diverso da quello con cui anche a Roma ci si immaginava di doversi confrontare.
Un riassunto breve dice che “nel Regno Unito il successo dei laburisti si è accompagnato a un crollo verticale dei conservatori e, nonostante l’exploit di Nigel Farage, si può ben dire che è stata penalizzata la classe politica a cui si deve la Brexit, con le sue conseguenze economiche e sociali. Il che dovrebbe accendere più di un campanello d’allarme tra gli euroscettici (e gli antieuropei) nostrani. Il caso francese, a sua volta, investe direttamente le vicende della Ue e quindi anche le nostre, che a quelle sono indissolubilmente legate (e sarebbe ora che tutti, a destra come a sinistra, se ne rendessero conto). Non sappiamo ancora quale governo nascerà a Parigi, ma sicuramente non sarà un governo come quello che sognava la Le Pen, visto il successo del nuovo Front populaire. E tutto sommato lo stesso presidente Macron esce rinfrancato da una scommessa che pure presentava rischi enormi per lui e il suo Paese. Tenuto poi conto che a Berlino governa il socialdemocratico Scholz e a Madrid il socialista Sanchez, è del tutto evidente che i margini di movimento per Giorgia Meloni siano ristrettissimi. Nella partita interna al destra-centro italiano, però, il voto francese rappresenta soprattutto un duro colpo per Salvini che ha un sodalizio robusto e di antica data con la Le Pen, a differenza della premier che è schierata con un’altra famiglia della destra europea. Questa situazione potrebbe spingere la Meloni su posizioni più moderate, trovando una sponda in Forza Italia e rinunciando a rincorrere il leader leghista nelle sue scorribande anti-Ue. Anche sul piano delle riforme istituzionali, del resto, la prospettiva di puntare direttamente sui referendum saltando ogni mediazione appare oggi ancora più rischiosa di quanto già non fosse prima. L’esperienza francese conferma che l’alleanza “tutti contro” la destra può non essere sufficiente per costruire una maggioranza di governo alternativa, ma può bastare se si tratta di fare argine verso un’operazione considerata pericolosa”.
Il problema – si è pure detto – si pone in maniera speculare anche nell’altro schieramento. Elly Schlein e i suoi alleati effettivi e potenziali hanno ovviamente accolto con entusiasmo il voto di Londra e di Parigi. Ma si trovano di fronte a una scelta molto impegnativa sul piano strategico. Il modello francese testimonia che la destra può essere battuta con quello che da noi si chiamerebbe “campo largo”, ma se si tratta di presentarsi agli elettori come una maggioranza di governo credibile il discorso è ben diverso. Il modello britannico, a sua volta, è di tutt’altra natura: un solo partito e una proposta programmatica di stampo riformista. In ogni caso contano in misura decisiva i sistemi istituzionali ed elettorali. Keir Starmer ha ottenuto circa il 63% dei seggi con il 33,9% dei voti, in virtù di quel sistema uninominale a un turno che è un classico della tradizione inglese e che con alcune varianti piacerebbe anche alla destra di casa nostra. Tutto lecito, ovviamente, e la vittoria politica dei laburisti è incontrovertibile. Ma si tratta pur sempre di minoranze che diventano maggioranze. Da noi la materia è oggetto di discussione e, anche se si tratta di argomenti ostici, i cittadini dovrebbero tenere gli occhi ben aperti. Non a caso il presidente Mattarella, parlando a Trieste dei pericoli per la democrazia, ha puntato il dito contro quelle situazioni in cui “il principio ‘un uomo-un voto’ venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori”. Se Biden si dimettesse, chi scenderebbe in campo per i democratici nella sfida elettorale? Alcune idee su chi potrebbe farsi avanti per succedere all’attuale inquilino della Casa Bianca sono offerte dal giornalista Martin Pengelly, capo della redazione a Washington del Daily Beast, che cita l’editorialista del New York Times, Bret Stephens: Joe Biden ha un’opzione se vuole assicurarsi una “eredità coraggiosa, onorevole e trasformatrice” dal suo periodo come presidente degli Stati Uniti. Dovrebbe scegliere di non candidarsi per la rielezione a novembre. The Daily Beast è un sito di notizie americano incentrato su politica, media e cultura pop. Fondato nel 2008, il sito web è di proprietà di Iac Inc. ed il suo editore fondatore è stato Tina Brown, ex redattrice di Vanity Fair e The New Yorker. Tabloid di fascia alta, è particolarmente attento ai retroscena potici, tutt’altro che gossip. A cinque mesi dal giorno delle elezioni, Stephens ha elencato le vertiginose sfide che Biden deve affrontare in patria e all’estero. L’età non è dalla sua parte e sono incessanti le speculazioni secondo cui il presidente è troppo vecchio per la carica, rendendolo inadeguato rispetto ai grandi compiti che gli Stati Uniti devono affrontare, lasciandogli “un’opzione che può essere una vittoria per l’America e, in definitiva, il suo posto nella storia”. Al momento giusto il presidente Biden si tirerà indietro come un moderno Cincinnato – il dittatore romano che ha ceduto il potere? E quali democratici potrebbero intervenire nella breccia? Primo su tutti, un governatore costiero con i capelli televisivi, come Gavin Newsom della California che ha già affrontato il governatore della Florida Ron DeSantis su Fox News a dicembre. Il surrogato di Biden sembrava avesse vinto, in parte semplicemente apparendo più presidenziale di un avversario schierato con Trump. E’ ampiamente ritenuto che Newsom stia preparando una corsa presidenziale nel 2028; ma si dice anche che l’alto e bel Newsom stia in realtà conducendo una campagna ombra nel caso in cui la nomina democratica si aprisse dopo la probabile rinuncia di Biden. Lui lo nega, ovviamente, ma a 56 anni e al suo secondo mandato ha l’esperienza, oltre all’aspetto e ai modi, per farsi valere rapidamente sulla scena nazionale. “In qualità di governatore di uno stato profondamente blu (attaccato da DeSantis come una sorta di inferno disseminato di feci), Newsom può aspettarsi una feroce opposizione sia da parte dei centristi che dei repubblicani. Poi ci sono gli altri, quelli che sperano in qualche voto. Ma Newsom li surclassa. Phil Murphy del New Jersey – ad esempio – non ha nulla a che vedere con il profilo o la presenza di Newsom (anche se ha una nuova pettinatura), ma è anche un governatore per due mandati con un solido record in un popoloso stato blu che potrebbe sembrare pronto per colmare una lacuna. Ha 10 anni più di Newsom, ma nella politica americana odierna, 66 anni sono praticamente anni di giovinezza. Ex dirigente di Goldman Sachs, Murphy potrebbe rassicurare i leader di Wall Street che circondano Trump. Ha anche esperienza diplomatica, avendo servito come ambasciatore in Germania sotto Barack Obama. Come il suo rivale nega ogni interesse per la nomina presidenziale nel 2024 ma evita le domande sul 2028 e sarebbe sicuramente interessato all’occasione se all’improvviso per la candidatura ufficiale si liberasse un posto vacante. Kamala Harris, invece, è ovviamente la vicepresidente di Biden e avrebbe quindi tutto il diritto di aspettarsi sostegno da parte dei fedeli democratici qualora il presidente decidesse di dimettersi. La prima donna e donna di colore ad essere vicepresidente, ex procuratore generale della California e senatrice degli Stati Uniti, è emersa da una lista di seri contendenti per impadronirsi di quel ruolo alla Casa Bianca. Il suo periodo nel lavoro che uno dei vicepresidenti di Franklin D. Roosevelt affermò brutalmente non valesse “una brocca di piscio caldo” è stato ovviamente tutt’altro che facile, ma le recenti uscite elettorali hanno dimostrato l’immensa forza di Harris nella lotta contro i repubblicani per le minacce ai diritti riproduttivi, primo fra tutti l’accesso all’aborto. Come ha scoperto Biden nel primo dibattito del 2019, quando Harris attacca, i colpi retorici non mancano ad arrivare. Come gli elettori hanno scoperto nel corso delle primarie, la politica del commercio al dettaglio non è un punto di forza. Se dovesse crearsi un posto vacante a breve termine, Mark Kelly dell’Arizona potrebbe infine essere una buona scommessa esterna per candidarsi a sorpresa alla Casa Bianca. Non solo popolare e proveniente da uno stato campo di battaglia, il sessantenne è un ex pilota da combattimento della Marina americana e astronauta della Nasa e ha legami diretti con il movimento per la riforma delle armi, una causa chiave democratica, attraverso sua moglie Gabrielle Giffords, ex deputata che è sopravvissuto alla sparatoria nel 2011.
Il contesto elettorale di novembre resta quello in cui Usa e Russia (non la Nato né Davos) punterebbero alla pace e non ad un’escalation. Ma perché Macron spinge per la guerra contro la Russia? Follow the money, come sempre. Con un accordo definitivo tra Usa e Russia, Yalta non verrà cancellata e l’Unione europea imploderebbe restando priva di risorse. Eventi già previsti per fine settembre 2024 imporranno inoltre un cambiamento di governo a Londra e Parigi, quest’ultima sull’orlo della crisi finanziaria. Davos all’angolo, la Ue pronta a crollare, il ritorno del marco tedesco, l’elezione possibile di Trump sconvolgeranno gli equilibri. Inoltre, dal 30 settembre dopo oltre 50 anni il Libor – The London Inter Bank Offered Rate (in cui le banche francesi ed inglesi fanno la parte del leone) – in dollari finirà del tutto. Il panel di banche private basato a Londra che fissava il tasso di finanziamento del dollaro offshore, ossia europeo, in alternativa alla Fed, chiuderà definitivamente i battenti. Pertanto l’Ue non sarà più in grado di generare dollari privatamente in autonomia alla Fed. Cosa potrebbe accadere in pratica in Europa? Che in caso di trade deficit, il potere di prendere tempo stampando dollari che non si posseggono a costo di pochi decimali, via proprie banche private, possibilità data dal Libor, finirà. E a chiudere i rubinetti saranno proprio Francia e Germania, che avranno magari bisogno di una guerra in Europa, visti gli insanabili squilibri presenti. La transizione al sistema Sofr dal Libor è stata accelerata durante l’amministrazione Trump per ridurre l’influenza della City di Londra e rafforzare l’indipendenza della politica monetaria degli Usa. Ma è chiaro che questo indebolirà l’euro e metterà in difficoltà le banche europee. L’Ue è davvero ad un bivio. Se davvero – come scrive il Guardian – Giorgia Meloni è emersa come “un kingmaker per l’Ue” lo capiremo. Anche i suoi avversari più duri ammettono che ha giocato in modo intelligente. Tuttavia gli obiettivi a lungo termine del primo ministro italiano rimangono poco chiari. “Se riuscisse a costruire con successo un ponte – scrive il quotidiano – tra i conservatori europei e almeno una parte dell’estrema destra, la Meloni potrebbe effettuare un cambiamento piuttosto radicale nella direzione dell’Ue, su questioni vitali come il cambiamento climatico, l’allargamento e l’immigrazione. Forse è questo il suo piano”.