Sui temi che hanno fatto muovere gli agricoltori di tutta Europa e quelli italiani in questi giorni, Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, da sempre impegnato a sostenere le ragioni di una filiera agroalimentare sana e giusta, ha affidato alle pagine de “la Stampa” e ad altri media una riflessione attenta e documentata che può risultare molto utile per capire perché e con quali ragioni stare dalla parte degli agricoltori virtuosi che rispettano “madre terra” e sacrificano ogni anno la loro vita dietro il ciclo delle stagioni. Ecco il testo integrale…
di carlo petrini
La protesta degli agricoltori iniziata a dicembre in Germania (un po’ in sordina) e ora diffusa in tutta Europa sta forse a significare che siamo arrivati alla resa dei conti? Non mi riferisco alla polarizzazione di chi vuole far passare quanto sta accadendo come una sfida all’agenda verde europea e che quindi mette agricoltura e ambiente in contrapposizione. Quella piuttosto è una strumentalizzazione portata avanti dai partiti di estrema destra e dai populisti che cavalcano l’onda delle proteste per attaccare le politiche ambientaliste ed entrare nel vivo della campagna elettorale in previsione delle elezioni europee di giugno.
La resa dei conti di cui parlo è legata all’impossibilità di continuare a vendere il cibo a prezzi stracciati e così facendo a relegare gli agricoltori nel gradino più basso della scala sociale. Gli agricoltori devono essere rimessi al centro della filiera agroalimentare. Se ci pensiamo, d’altronde, in economia ci si riferisce a questo settore con il termine “primario”. Il nome da sé dovrebbe essere autoesplicativo. Primario è ciò che viene prima di tutto il resto, perché soddisfa il bisogno primario dell’uomo, l’alimentazione, ma nella realtà sappiamo che non è così.
I contadini oggi sono messi sotto pressione da gruppi finanziari che speculano sui prezzi dei beni alimentari come se fossero degli strumenti finanziari, dai giganti dell’agroindustria che controllano gran parte della produzione alimentare (dalle sementi, ai pesticidi e fertilizzanti) e dalla grande distribuzione organizzata che in Italia rappresenta il canale di vendita di quasi il 75% di tutto il cibo e le bevande consumate. In uno scenario di questo tipo il margine di manovra a disposizione dei contadini è praticamente nullo, e i prezzi di vendita spesso non coprono neppure i costi di produzione.
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Da qui il fatto che, quando vengono tolti i sussidi (come nel caso del gasolio in Germania e Francia) o imposte restrizioni ambientali (ad esempio a livello europeo nella riduzione dell’uso dei pesticidi, o nell’obbligo di mettere a riposo il 4% delle proprie terre agricole) scendano in piazza per la disperazione. E a scendere in piazza sono proprio tutti: gli uni accanto agli altri, vediamo agricoltori che praticano un’agricoltura intensiva, sostenuta nei decenni da milioni di euro provenienti dalla Politica Agricola Comune (Pac), che ha impoverito la terra senza peraltro arricchirli; così come allevatori e contadini virtuosi, sistematicamente abbandonati e ora allo stremo delle forze.
Questa consistenza variegata di partecipanti contribuisce senz’altro ad alimentare la confusione rispetto alle diverse sfumature di motivazioni che alimentano le rivolte. Rimane però un minimo comune denominatore: oggi produrre cibo è economicamente insostenibile. Questo è in larga parte imputabile al fatto che il sistema liberista ne stabilisce il valore unicamente attraverso il prezzo. Senza i suoi valori culturali, sociali, ambientali e senza la cura e l’orgoglio che meriterebbe, il cibo diventa una merce come un’altra: che deve costare poco. Il cibo a basso prezzo però è un’illusione, non esiste. Il vero costo del cibo alla fine viene pagato da qualche parte.
E se non lo paghiamo alla cassa, lo paga l’ambiente, la nostra salute, o gli agricoltori che non hanno i mezzi per pagarsi da vivere. Con l’obiettivo di garantire ai loro clienti offerte sempre più accattivanti, le catene della grande distribuzione organizzata hanno ridotto all’osso il prezzo pagato ai piccoli produttori (in media i supermercati si intascano il 50% del prezzo finale al consumo, agli agricoltori va meno del 10%), scaricando al contempo su di essi tutti i costi e rischi di produzione. E siccome i clienti dei supermercati siamo noi cittadini, dobbiamo sentirci chiamati in causa nella risoluzione del problema.
Dalla fine del secondo dopoguerra viviamo in un mondo in cui l’incidenza della spesa alimentare sulla spesa delle famiglie è in continua discesa. Negli anni ‘60 era quasi il 40%, oggi è sotto al 20%. Eppure ci lamentiamo che il cibo costa troppo, ma allo stesso tempo siamo disposti a spendere centinaia e centinaia di euro per un cellulare, senza metterne per nulla in discussione il prezzo.
È tempo di riordinare la nostra scala di valori. Di prenderci il tempo di apprezzare il cibo, di sceglierlo consapevolmente locale e di stagione, di non sprecarlo e quando possibile di acquistarlo direttamente dai produttori così da garantire che l’intero prezzo di vendita vada a loro beneficio. Chi invece negli ultimi settant’anni ha speso molto per la produzione di cibo è l’Unione europea, destinando il 30% del budget comunitario alla Pac.
Dopo decenni di finanziamenti a pioggia e criteri di erogazione basati sulla quantità (l’80% dei finanziamenti oggi va ancora al 20% degli imprenditori agricoli e premia l’agricoltura intensiva), piuttosto che sulla qualità, è questa la politica europea da riformare completamente e non il Green Deal. La Pac dovrebbe aiutare in primis chi già produce il nostro cibo seguendo pratiche agroecologiche e supportare tutti gli altri nella transizione verso un modello che consenta la persistenza dell’attività agricola e il ripristino degli ecosistemi. C’è urgenza di un sistema alimentare che protegge le sue fondamenta: la terra e chi la lavora.