A firma del collega Roberto La Pira, vogliamo riproporvi integralmente ciò che “il Fatto Alimentare” ha pubblicato lo scorso 6 novembre. Lo facciamo non solo per dovere di solidarietà e di testimonianza ma anche perché riteniamo che il “caso” de “il Fatto Alimentare” rappresenta davvero un punto cruciale che mette a rischio ancora una volta uno dei nodi nevralgici della libertà di informazione.
I giornalisti fanno un lavoro bellissimo, ma sempre più difficile: vi spieghiamo perché. Abbiamo chiesto a un noto studio di avvocati del centro di Milano un preventivo per la difesa in una causa civile per danni da diffamazione portata avanti da un’azienda alimentare che fattura oltre 750 milioni di euro l’anno. Il preventivo dello studio legale prevede una spesa di 36 mila euro. Un amico avvocato ci ha chiesto 18 mila euro, che è poi la tariffa minima indicata dall’ordine per una causa come la nostra in cui l’azienda dichiara di aver subito un danno di 1,5 milioni. Attenzione però, perché per una causa di questo tipo uno studio legale può chiedere come parcella oltre 50 mila euro per la difesa (si tratta dell’importo massimo previsto nel tariffario degli avvocati).
Il problema è che spesso questo tipo di cause ha il solo scopo di intimidire i giornalisti e non di ristabilire la verità dei fatti. La causa viene portata avanti anche se l’articolo si limita a raccontare gli eventi basandosi su documenti ufficiali, senza alcuna frase o giudizio calunnioso. Gli avvocati delle aziende sono abilissimi nel creare teoremi, nel vantare danni di immagine e di altro tipo, salvo poi non riuscire a documentarli. Il più delle volte sanno che il giudice rigetterò la querela, ma questo non importa. Lo scopo non è ottenere giustizia, bensì creare un clima di incertezza o addirittura panico in redazione. La mission degli avvocati è impaurire i giornalisti chiedendo cifre iperboliche. Pretendere 1,5 milioni di euro a titolo di rimborso a una realtà editoriale come la nostra, sapendo che nel caso di soccombenza non sarebbe in grado di fare fronte, vuol dire avere come scopo la chiusura del sito.
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La nostra esperienza
Le cause per diffamazione che ho dovuto affrontare sono tante, ma non ho mai perso. Per quanto riguarda Il Fatto Alimentare in alcuni casi si è trovato un accordo con le aziende, anche se questo comporta comunque il pagamento delle parcelle degli avvocati. Per una redazione come la nostra le spese legali sono un onere difficile da sostenere e le aziende lo sanno. Diverso sarebbe se venisse riconosciuta, come avviene in altri Paesi, la lite temeraria per cui l’azienda querelante, quando perde la causa, deve pagare al soggetto querelato il 10-20% dei danni reclamati. Se fosse così, saremmo quasi “ricchi” e il numero di querele per diffamazione in Italia si ridurrebbe del 90%.
La libertà di informazione è in pericolo
Il nostro sistema giuridico però permette di avviare una causa civile per danni da diffamazione anche senza uno straccio di prova del danno, al solo scopo di intimorire. Nelle conversazioni che ho avuto in tanti anni di lavoro, più volte gli interlocutori puntualizzavano che la nostra colpa è di informare i lettori, non di scrivere articoli scorretti. Sì, avete capito bene, non ci accusano di avere scritto cose false. Viene messo in discussione il diritto all’informazione previsto dalla Costituzione. La querela arriva perché abbiamo avuto l’impudenza di raccontare fatti che non piacciono. Fino ad ora queste vicende giudiziarie le abbiamo condivise solo all’interno della redazione. Adesso abbiamo deciso di informare i lettori sulle varie fasi, per fare loro capire quali sono le leve su cui possono agire alcune imprese desiderose di censurare la stampa indipendente.
C’è poi un altro sistema utilizzato da alcune aziende per evitare che i giornalisti pubblichino articoli scomodi. Si tratta di stipulare contratti pubblicitari generosi con gli editori che, per evitare di perderli, evitano di pubblicare articoli scomodi o di realizzare inchieste potenzialmente fastidiose per l’inserzionista (oltre al caso ambiguo dei pubbliredazionali) . Questo sistema è molto diffuso nei giornali e nei siti online, ma con noi non funziona.