Una storia lunga molto più di mezzo secolo. Un rapporto difficile tra padre e figlio. Il padre era Bernando Caprotti, fondatore di Esselunga. Il figlio è Giuseppe che agli inizi degli anni Duemila venne “cacciato” dall’azienda proprio dal padre. A distanza di un ventennio, Giuseppe Caprotti racconta tutti i dettagli di quegli eventi, il rapporto con il padre, la nascita stessa di Esselunga. E l’emozione non gli manca quando anticipa a Francesco Spini per la Stampa i motivi di questo suo libro, i temi, le ferite ancora aperte. Emozione che talvolta ne interrompe persino la voce, quando parla, per esempio, del suo «lockdown» seguito al licenziamento del 2004. Dice: «per la grande distribuzione ero diventato un paria». Ma assicura anche: «Sono andato oltre le mie vicissitudini, mio padre non mi ossessiona, Esselunga non mi ossessiona. L’astio e l’odio che ci sono stati non ci sono più».
di francesco de rosa
Doveva essere il “predestinato” ma alla fine fu cacciato dall’azienda. Ora Giuseppe Caprotti, figlio del fondatore di Esselunga ha scritto un libro: «Un mio libro per ristabilire la verità: dopo il licenziamento fu come un lockdown. Farla finita? Mio papà mi chiedeva se non ci pensassi mi ha salvato la famiglia» Un titolo nefasto “Le ossa dei Caprotti” di cui lui stesso spiegherà. E una storia di grande imprenditoria. Giuseppe Caprotti, è stato il figlio che fu licenziato da suo padre Bernardo (scomparso nel 2016), ha messo tutto quello che occorreva per capire come andò. Un racconto che riannoda l’ascesa di una famiglia che in 300 anni ha costruito un impero, ma anche le vicissitudini di Esselunga e la dolorosa storia di divisioni, liti, umiliazioni. Giuseppe Caprotti non nasconde nulla, parla senza omissioni anche quando si tratta di anticipare i contenuti e l’ispirazione del suo libro d’esordio.
Perché il titolo «Le ossa dei Caprotti»?
«Per una certa passione di Bernardo per le ossa, espressa anche in una lettera del ’97 in cui racconta lo stato di decomposizione dei resti dei famigliari in occasione della ristrutturazione della cappella di famiglia. Tra le ipotesi c’era anche un altro titolo: “Pensavo che ti saresti sparato”. Una frase che mi rivolse mio padre».
Ha mai pensato di farla finita?
«Il mio è stato un percorso doloroso. E alla fine è una cosa a cui uno pensa…».
Come si è salvato?
«Per me è stato molto importante avere una famiglia. Questo mi ha molto aiutato. E mi fermerei qui».
Il libro si apre con una citazione di Enzo Biagi: «Per uccidere un uomo non serve togliergli la vita. Basta togliergli il lavoro». È la sua storia?
«Per me il lavoro era fondamentale. Poi c’è la famiglia, certo. Ma col lavoro ho perso la reputazione, l’azienda. Anche degli affetti, perché in Esselunga c’erano molte persone a cui ero legato e che sono scappate».
Qual è l’ultimo ricordo che ha di suo padre?
«Ero ancora adolescente. Quando guardavo un film, anche se del film non gliene importava nulla, mi si sedeva accanto, pur di stare con me. È un ricordo piacevole. So che c’era dell’affetto».
Il libro l’ha aiutata a far pace col ricordo di suo padre?
«Sicuramente».
Il momento più duro?
«Sono tanti: il licenziamento, quando ci hanno tolto le azioni, i processi penali…».
Nel libro racconta la storia della perizia psichiatrica che suo padre le fece fare.
«È stata nel 1990, all’hotel Londra di Firenze. Io ne esco molto bene. Con lo psicologo, autore della perizia, sono perfino diventato amico».
E poi c’è il famoso episodio delle quattro Mercedes nere.
«Ero ad di Esselunga. In automobile ricevo una telefonata dal direttore del personale che mi dice: “Bernardo ha convocato una riunione dei dirigenti”. Il giorno della riunione arrivo in sede. Ricordo la scena: sembrava una delegazione sovietica con quattro auto nere. Mi dice di aver licenziato tre dei miei manager».
Ma le Mercedes erano quattro.
«Chiesi: la quarta è per me? “Non ancora”, rispose Bernardo. Rimasi sotto choc per giorni: non sapevo più dove fossi. Aveva organizzato uno spettacolo a cui quadri e dirigenti avevano dovuto assistere. Qualche giorno dopo mi mandò via».
Ci racconti dei suoi Natali.
«Ci faceva ascoltare i discorsi di Mussolini. Al posto di Jingle Bells risuonava per casa “spezzeremo le reni alla Grecia”».
Suo padre era fascista?
«No, disprezzava il Duce. Era un provocatore. Come quando a un archistar comunista e di religione ebraica disse che Mussolini andava rivalutato. L’architetto incassò. Allora disse che Hitler andava rivalutato. Al che se ne andò».
Nel libro sostiene che suo padre non è l’artefice della nascita di Esselunga.
«No, è stata un’iniziativa di manager americani guidati da Nelson Rockefeller, con il supporto della Cia. Mio padre sarà determinante più avanti, nello sviluppo dal 1965 in poi».
Lei è rimasto vent’anni in Esselunga arrivandone ai vertici. Cosa la rende più orgoglioso?
«La redditività che ho raggiunto e i tanti posti di lavoro creati, 3.500 solo nel 2002».
Perché suo padre la mandò via?
«Per gelosia».
La sua famiglia litiga da trecento anni. È colpa dei soldi?
«Non dei soldi, ma di personalità che non si incontrano. Una storia molto italiana».
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