“I vagiti dell’iperbole”, la fiaba di Girolamo De Simone illustrata da Filomena Piccolo

Il valore di un libro si misura certo per i suoi contenuti ma anche la veste grafica manda i suoi messaggi; qui la carta, l’impaginazione, le illustrazioni ci raccontano già una storia: la storia dell’incontro felice di due passioni. Ma procediamo con ordine.


di giuseppina crocenti


Iperbole. Figura retorica che tutti crediamo di conoscere e che invece cela non poche insidie e si sostanzia di complessità. Tra le tante definizioni offerte dai manuali e dai dizionari di retorica, quella che secondo me maggiormente fa al caso nostro è quella che ne dà Fontanier in “Le figures du discours” (1977) che vi propongo nella traduzione di Bice Mortara Garavelli: con l’iperbole “si presentano le cose molto al di sopra o molto al di sotto di ciò che sono, con l’intenzione non di ingannare ma di condurre alla verità e di imprimere ciò che si deve realmentecredere attraverso ciò che l’iperbole dice di incredibile”. Ci troviamo, pertanto, dinanzi a una figura di veridizione, cioè di un effetto rafforzato di verità. E allora, leggendo il titolo, ci chiediamo dove ci condurrà la nostra iperbole appena nata, protagonista di una “fiaba analoga”. Ci si interroga subito sul termine “analoga”. Dai due frammenti che il dottissimo autore condivide con me apprendo che la nozione proviene da R. Daumal, che ha scritto il romanzo Il monte analogo, luogo dove non c’è niente che possa dirsi vero, e niente che sia falso del tutto e dove conta, più del resto, affacciarsi nella propria interiorità. E questa spiegazione rappresenta una seducente promessa. Ma entriamo ora nel testo, chiarendo subito che poche volte la parola testo assume una cifra genuinamente semiotica come in questo. 

Solo apparentemente un divertissement. Intanto, a margine, è bene precisare che  questa non è una favola ma una fiaba. Tutti conosciamo la differenza: la fiaba è popolata da esseri fantastici, la favola da animali; la fiaba non contiene morale e la favola invece sì. Tiriamo subito un sospiro di sollievo perché le morali sono diventate materia ingombrante.

Ma  si fa presto a  dire fiaba. Le fiabe sono – non senza eccezioni (Carroll, de Saint-Exupery,  Sepùlveda, Rodari, Gamberale)  – scritte per i bambini e perciò di immediata comprensione. Ma questa non è certo una fiaba facile, perché presenta una impegnativa stratificazione di livelli: linguistico, stilistico, simbolico e perfino esoterico. Però, sul punto, l’autore ci rassicura già in premessa “… se dobbiamo quindi leggere, ebbene che sia da un cattivo libro; se proprio si deve speculare sull’anima, almeno lo si faccia senza nemmeno un barlume di serietà”. Come dire: “Non prendetela e non prendiamoci troppo sul serio, predisponiamoci alla lettura con animo leggero così che ognuno succhi da questo libro ciò che può e/o ciò che gli serve in quel momento”. Infatti, prosegue con un lungo calembour diaforico sullo specchio (p.3). Ma, attenzione: lo specchio è oggetto carico di significati e di simbologie, è una porta sull’Altrove (come non pensare ad Alice?). E cos’è l’altrove? Per Alice è il mondo a rovescio, per Jung è il Sé a noi sconosciuto che cerchiamo di raggiungere attraverso l’analisi; nella mitologia non solo greca l’altrove è il Numinoso in tutte le sue accezioni e in tutte le sue forme. Ma in ogni caso rappresenta il mistero, la sfida, il viaggio.  

In tema di viaggio, l’attenzione viene qui attratta dall’uso del termine “spercolare”, contenuto nell’invocazione allo specchio/sfinge. Spercolare (spericolare) è voce desueta che significa “esporsi ai pericoli”. Ogni viaggio, si sa,  nasconde sempre qualche incognita ma l’uso di questo termine fa intuire che questo sarà uno di quei viaggi che usiamo classificare come “estremi” (Se per caso fossi costretto a mangiare un abominio p. 4…).

A partire da uno specchio d’acqua inizia quindi il viaggio nel tempo. Dai residui di un’idea di Verdacqua si genera poco a poco un Giardino incantato che non è il luogo dell’equilibrio e della pace ma al contrario quello della sopraffazione reciproca che prosegue per secoli fino all’estinzione di “ogni dinastia razionale” (p. 11). E nascono gli Ibridi, creature dall’aspetto e dai nomi multiformi – organizzati socialmente in sei sette apostatiche – che convivono più o meno bellicosamente con altri personaggi delle varie mitologie, tra cui i folletti, le naiadi, gli elfi, gli gnomi e perfino Pan, il deforme e licenzioso dio greco. 

Nella foto in alto Girolamo De Simone
Filomena Piccolo che ha curato le pregevoli illustrazione del libro

Potremmo  tentare il divertente gioco di dare un significato ai nomi-macedonia degli Ibridi. Ma ha senso cercare spiegazioni ed etimi in un Giardino incantato? Tra l’altro è anche troppo facile supporre che le sei sette contengano una metafora dell’oggi.   

Il narratore e la mise en abyme: Fino a questo punto dell’affascinante racconto si ha l’impressione che il Narratore (anzi: i Narratori) sia extradiegetico ma a pagina 21 compare un vecchio. Che sta raccontando. Si chiama Toth, nientedimeno.  Il dio egizio della Luna, della sapienza, della scrittura, della magia, della misura del tempo, della matematica e della geometria. Il vecchio è perciò IL narratore per eccellenza, è colui che possiede le storie di tutti i tempi e di tutti i luoghi: “Una delle sue caratteristiche, la sua specialità, era la facoltà di modulare le storie a piacimento, ad libitum: espandeva, condensava, mutava le parole a volontà, in modo tale da tessere con le fiabe una infinità di quanti”. Insomma una vertigine, un abisso di significanti e di significati in cui ogni lettore può/deve seguire il proprio filo rosso verso una qualche forma di conoscenza o di rispecchiamento. 

Per un momento il vecchio Toth interrompe il racconto, che ricomincia poco dopo   assumendo la fisionomia di una dissertazione filosofica che, di enunciato in enunciato, ci accompagna in un tortuoso percorso verso il processo che possa condurre a una qualche forma di benessere interiore. Si  interroga sul potere della parola, Toth,  e anche sulla possibilità di riuscire a vivere senza pensare, perché il pensare, rendendo consapevoli,  produce inevitabilmente sofferenza. E tutti i sentieri percorsi dagli umani gli sembrano preclusi a gran parte dell’umanità. Eccetto l’arte.

E poi Toth ritorna alla forma narrativa e, passando per altre figure che appartengono alla fiaba e al mito (il cavallo dalle ali d’oro, Poseidone, il santone indiano, Sinbad..), giunge a narrarci di Smeralda, “sovrana del luccicante impero di cristallo” dove tutto è puro e luminoso perché lei possiede il segreto del verde. Tutti qui vivono una vita felice che sembra vera. Ma un’ombra nera minaccia la serenità del regno di Smeralda che, prima di addormentarsi, confida il segreto del verde alla cisterna incantata e  l’acqua inizia a produrre suoni misteriosi. 

E qui si conclude il viaggio e insieme il percorso circolare della fiaba, che inizia e finisce con l’acqua-specchio, l’acqua-vita, l’acqua che emette suoni guidando, forse, verso la soglia e l’Altrove. 

Il livello iconico e la narrazione a due voci: i magici,  raffinati, eterei  disegni di Filomena Piccolo supportano la/le trame, le rafforzano, alleggeriscono i toni talvolta cupi nonostante i propositi iniziali,  ma si rivelano  anche  completamente autonomi dalle parole quando il tratto si fa aereo, anarchico e visionario e nel suo essere visionario torna a interpretare tutta la poesia,  la grazia e anche l’angoscia sottile di cui è permeato il testo. In questo senso in apertura ho parlato di incontro felice di due passioni. 

È opinione condivisa che la fiaba consenta l’esteriorizzazione dei conflitti inconsci, dando ad essi una forma simbolica. Il linguaggio di questa forma di comunicazione di conoscenze è simile a quello del sogno, anche se vi si differenzia per la struttura logica e coerente, che durante il sonno non è presente. In questa speciale fiaba – per la cui analisi le funzioni proppiane servono a ben poco – non tutti forse potranno cogliere il mistero e l’enigma o i tratti amari dissimulati e stemperati malinconicamente  nel gioco linguistico,  nel calembour, negli “a parte” meditativi permeati di riflessione filosofica (22,23), nelle frasi ermetiche (p.28). Tuttavia, un messaggio potente raggiunge tutti: l’irriducibile fiducia nel potere del suono e dell’arte.

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