In un libro dal titolo “So Help Me God”, l’ex vice presidente Mike Pence descrive con molta efficacia cosa è successo tra lui e Donald Trump prima e dopo il 6 gennaio. I sostenitori dell’ex presidente avrebbero addirittura chiesto la testa di Pence, perché lui si era rifiutato di impedire a Joe Biden di essere eletto. In effetti, l’ex vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence è stato al centro dell’attenzione durante l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021: dato che non ha rispettato la richiesta di Donald Trump di rifiutarsi di certificare i risultati delle elezioni presidenziali, alcuni manifestanti chiesero quel giorno nefasto per l’America persino la sua testa con dei canti: «Impicca Mike Pence! Impicca Mike Pence!». Ecco come nel libro Mike Pence riannoda quegli eventi e lo stesso ruolo scellerato di Trump.
di mike pence*
Tredici giorni dopo le elezioni del 2020, pranzai con il presidente Trump. Gli dissi che se i suoi ricorsi legali non avessero portato a niente, avrebbe potuto semplicemente accettare l’esito delle elezioni, procedere con la transizione e il passaggio di consegne, e prepararsi a un ritorno politico vincendo il ballottaggio in Georgia per il Senato, la corsa per la poltrona di governatore della Virginia nel 2021 e conquistare la Camera e il Senato nel 2022. A quel punto, nel 2024 avrebbe potuto candidarsi alla presidenza e vincere. Mi parve distaccato, forse anche sfinito: «Non so… il 2024 è così lontano».
In una telefonata del 5 dicembre, il presidente per la prima volta parlò di mettere in discussione i risultati elettorali davanti al Congresso. A metà dicembre, su Internet pullulavano le congetture sul mio ruolo. Un irresponsabile spot televisivo di un gruppo che si fa chiamare Lincoln Project ipotizzò che quando mi avessero chiamato a presiedere l’assembla generale del Congresso per procedere alla conta dei voti si sarebbe dimostrato che io sapevo che «era finita» e che, assolvendo al mio dovere costituzionale, avrei inferto il colpo di grazia alla rielezione del presidente. Da quel che mi risulta, quella fu la prima volta che qualcuno alluse al fatto che ero in grado di alterare il risultato elettorale. Si trattava di un’affermazione antipatica, studiata apposta per irritare il presidente. E funzionò. Durante una riunione di gabinetto, a dicembre, il presidente Trump mi disse che lo spot «mi metteva in cattiva luce». Risposi che non rispondeva a verità: io avevo appoggiato in pieno i ricorsi legali contro i risultati elettorali e avrei continuato a farlo.
Il 19 dicembre il presidente alluse a una manifestazione a Washington il 6 gennaio. Pensai che sarebbe stata utile per attirare l’attenzione sui ricorsi. Avevo appena parlato con un senatore dell’importanza di esprimere preoccupazioni sul risultato elettorale davanti al Congresso e al popolo americano. Il 21 dicembre, alla Casa Bianca Jim Jordan, rappresentante dell’Ohio per il partito repubblicano, guidò i legislatori in una discussione sui piani finalizzati a presentare ricorso. Promisi che tutte le obiezioni debitamente presentate sarebbero state accolte e discusse.
Il 23 dicembre, salii a bordo dell’Air Force Two con la mia famiglia per andare a trascorrere il Natale con alcuni amici. Mentre sorvolavamo l’America, il presidente Trump ritwittò un articolo molto confuso intitolato “Operation Pence Card”, nel quale si accennava alla teoria secondo cui, nel caso in cui fosse fallita ogni altra iniziativa, il 6 gennaio io avrei potuto modificare l’esito delle elezioni. Lo mostrai a mia moglie Karen, e lei sollevò gli occhi al cielo. (…)
Molto presto, la mattina del primo dell’anno, il telefono squillò. Il rappresentante del Texas Louie Gohmert e altri repubblicani avevano sporto denuncia chiedendo a un giudice federale di dichiarare che io avevo «la facoltà e l’autorità esclusiva» di decidere quali voti elettorali dovessero essere contati. Il presidente disse che quella mattina non aveva intenzione di ritrovarsi a leggere un titolo come “Pence si oppone alla denuncia di Gohmert”. Gli dissi che mi ero opposto. «Se te ne è concessa facoltà – proseguì – perché mai dovresti opporti?». Gli risposi, come avevo già fatto in molte occasioni, che non credevo di avere quell’autorità in base alla Costituzione. «Sei troppo onesto – mi rimproverò -. Centinaia di migliaia di persone ti odieranno. La gente penserà che tu sia un idiota». (…)
Il 4 gennaio, Mark Meadows, capo dello staff del presidente, mi convocò allo Studio Ovale per incontrare un lungo elenco di partecipanti, tra cui il giurista John Eastman. Ascoltai con il dovuto rispetto quando Eastman sostenne che avrei dovuto modificare la procedura che prevede di aprire e contare i voti elettorali in ordine alfabetico, lasciando per ultimi i cinque »tati in ballo. Eastman dichiarò che avevo la facoltà di rispedire indietro i voti agli Stati fino a quando ciascuna legislatura non avesse certificato quali voti contestati erano accettabili. Avevo già confermato che non vi erano voti contestati. Eastman ribadì più volte la sua tesi, dicendo che si trattava solo di una teoria legale. Gli chiesi: «Pensa che io abbia la facoltà di respingere i voti contestati?». «Be’, non se ne è mai parlato in un tribunale; quindi, penso che sia una questione aperta», balbettò.
A quel punto mi girai verso il presidente, che era distratto, e dissi: «Signor Presidente, ha sentito? Perfino il suo avvocato non pensa che io abbia l’autorità di contestare i risultati elettorali». Il presidente annuì. Mentre Eastman si sforzava di spiegare meglio le cose, il presidente rispose: «Preferirei il contrario». (…)
Il 5 gennaio ricevetti una telefonata urgente: il presidente voleva vedermi allo Studio Ovale. I suoi legali, Eastman incluso, volevano che io respingessi i voti contestati. (…) Proprio prima di andare a coricarmi, vidi che il comitato elettorale di Trump aveva rilasciato una dichiarazione. Il New York Times riferiva che avevo detto al presidente che non credevo di avere la facoltà di fermare l’autenticazione del risultato elettorale da parte del Congresso. Era vero, ma la dichiarazione diceva che si trattava di “fake news”. Ebbi subito l’impressione che il 6 gennaio 2021 sarebbe stato un giorno lunghissimo.
L’indomani mi alzai presto e mi misi a scrivere una dichiarazione per il Congresso. Poco dopo le 11 squillò il telefono. Era il presidente. Gli dissi che «malgrado il comunicato stampa che ha reso noto ieri sera, sono sempre stato lealmente dalla sua parte». Gli ripetei che non credevo di avere la facoltà di decidere quali voti potevano essere ammessi e quali no, e gli dissi che avrei inviato al Congresso un comunicato di conferma, prima che avesse inizio l’assemblea plenaria. Il presidente si scagliò contro di me. «Sarai ricordato alla stregua di un codardo. Se lo fai, cinque anni fa ho commesso un errore madornale!». Quando però disse «non stai proteggendo il nostro Paese! Dovresti sostenerlo e difenderlo!», gli rammentai con calma che avevamo «entrambi giurato di sostenere e difendere la Costituzione».
(…) Mentre il nostro corteo di auto arrivava in Campidoglio, vidi migliaia di manifestanti attendere tranquillamente sul prato Est e provai compassione per tutte quelle brave persone che avevano raggiunto Washington perché era stato detto loro che il risultato elettorale poteva essere ribaltato. Quando entrammo, applaudirono. Mi girai verso mia figlia e le dissi con un sospiro: «Che Dio li benedica. Rimarranno così delusi…». Non avevo idea che a un isolato di distanza, sul lato Ovest del Campidoglio, si fosse formato quello che in seguito sarebbe stato descritto come un “muro di persone”. Mentre facevo strada ai senatori al piano della Camera, l’atmosfera era solenne. Non c’era nessun segnale o indizio del caos che si stava scatenando fuori.
(…) Quaranta minuti dopo, mentre parlava il repubblicano James Lankford dell’Oklahoma, la parlamentare del Senato Elizabeth MacDonough, seduta a poca distanza da me, si sporse in avanti e mi sussurrò: «Signor vicepresidente, i manifestanti hanno fatto irruzione sfondando le porte dell’edificio al primo piano. Volevo solo informarla…». Un uomo della mia scorta dei servizi segreti entrò in Senato, venne dritto verso di me e mi disse: «Signor vicepresidente, dobbiamo andare via». Confidando nel fatto che la polizia del Campidoglio degli Stati Uniti avrebbe preso subito il controllo della situazione, gli dissi che avremmo atteso nell’ufficio accanto, riservato a me in qualità di presidente del Senato.
Timothy Giebels, agente capo della mia scorta, entrò in quell’ufficio affollato e mi disse subito: «Signore, dobbiamo portarla immediatamente fuori dall’edificio». I manifestanti, che avevano fatto irruzione sfondando le porte del Campidoglio dal lato della Camera, si stavano dirigendo verso il Senato.(…) Dissi agli agenti della scorta che non avrei abbandonato il mio posto. Giebels insistette affinché andassi via. I facinorosi raggiunsero il nostro piano. Gli puntai un dito sul petto e gli dissi: «Lei non mi sta ascoltando. Io non me ne vado. Non permetterò che questa gente assista alla fuga dal Campidoglio di un corteo di 16 automobili». «Ok» rispose, con un tono di voce che chiaramente intendeva che non era affatto ok. «In ogni caso, non possiamo restare qui. Questo ufficio ha porte di vetro e non possiamo proteggerla». A quel punto mia figlia Charlotte chiese: «Non c’è un altro posto nel quale mio padre possa andare, pur rimanendo sempre all’interno del Campidoglio?». Giebels rispose che potevamo dirigerci verso lo scarico merci e i garage, pochi piani più giù. Io acconsentii.
Le scale furono messe in sicurezza. Ci dirigemmo lentamente nell’atrio. Tutto attorno a noi c’era un turbinio convulso e caotico: gli agenti della sicurezza e delle forze dell’ordine davano indicazioni alle persone, i funzionari gridavano e correvano al sicuro. Sentii passi frenetici e cori rabbiosi. (…) Giebels iniziò a farmi strada verso le auto, ma io mi fermai e dissi: «Non salirò a bordo».
In garage non c’era una televisione, quindi la mia scorta mi mise al corrente della situazione usando le radio della polizia e Twitter. Zach Bauer, il mio imperturbabile assistente, mi si avvicinò un po’ imbarazzato e mi porse il suo telefono. Alle 14.24 il presidente aveva spedito il seguente tweet: «Mike Pence non ha avuto il coraggio di fare quello che andava fatto per proteggere il nostro Paese e la nostra Costituzione, dando agli stati la possibilità di autenticare una serie di correzioni, non i voti fraudolenti o inaccurati che era stato loro chiesto di autenticare in precedenza. Gli Stati Uniti d’America esigono la verità». I facinorosi stavano mettendo a soqquadro il Campidoglio. Più tardi mi fu riferito che stavano gridando «Impiccate Mike Pence». Ignorai il tweet e mi rimisi al lavoro.
(..) Alle 14.38 fu chiaro che alla Casa Bianca avevano avuto la meglio le persone più lucide. Il presidente twittò: «Per favore, aiutate gli agenti della polizia del Campidoglio e delle forze dell’ordine. Loro stanno dalla parte del nostro Paese. State tranquilli!». (…) Alle 19, ci permisero di tornare nel mio ufficio. Quando l’assemblea riprese, cambiò tutto. Molti legislatori ritirarono il loro sostegno alle obiezioni che erano state presentate. Aldilà della violenza e della devastazione, i facinorosi del 6 gennaio erano riusciti a porre fine alle discussioni sulle irregolarità del voto. Intorno alle 3.40 di notte, la senatrice Amy Klobuchar del Minnesota lesse i risultati delle elezioni del 2020.
L’11 gennaio incontrai il presidente. Appariva stanco, la voce era più debole del solito. «Come stai?», esordì. «Come stanno Karen e Charlotte?». Risposi freddamente che stavamo bene e gli dissi che il 6 gennaio anche loro si trovavano in Campidoglio. Con un pizzico di rammarico, rispose: «L’ho appena saputo». Poi mi chiese: «Hai avuto paura?». «No – risposi -. Ero arrabbiato. Quel giorno, presidente, lei e io abbiamo avuto delle divergenze e vedere quelle persone devastare il Campidoglio mi ha mandato su tutte le furie». (…) Il 14 gennaio, il giorno dopo che il presidente Trump fu messo sotto accusa per la seconda volta, feci visita allo Studio Ovale. La sera prima il presidente aveva denunciato senza mezzi termini le violenze in Campidoglio e aveva esortato tutti alla calma e all’unità nazionale. Mi congratulai per le sue parole. «Sapevo che ti sarebbero piaciute», disse. Mi parve scoraggiato, quindi gli rammentai che stavo pregando per lui. «Non disturbarti», disse. Mentre mi alzavo per congedarmi, disse: «È stato bello». «È stato un privilegio, signor presidente», risposi. «Sì, con te lo è stato».
Mentre camminavo verso la porta che conduceva all’atrio, mi fermai, guardai il presidente negli occhi e gli dissi: «Immagino che non saremo d’accordo soltanto su due cose». «Quali?». Gli ricordai le nostre divergenze del 6 gennaio e poi dissi: «Inoltre, io non smetterò mai di pregare per lei». Il presidente sorrise e disse: «Va bene. Non cambiare mai».
*Mike Pence è stato vicepresidente degli Stati Uniti dal 2017 al 2021. Il brano è tratto da So Help Me God.Traduzione di Anna Bissanti.