Lorenzo Pone: Mille piani tra Napoli e il resto del mondo
di Girolamo De Simone
GDS: Lorenzo Pone, pianista-compositore (il trattino svolge qui una funzione segnaletica, come in J. Nancy), è di questi giorni la notizia della tua vittoria dell’Orpheus Classical Music Award 2020. Ciò comporterà la possibilità di incidere un disco per loro. Cosa registrerai? si tratterà di un omaggio a Badura-Skoda?
Lorenzo Pone: Ad uscire per l’Orpheus sarà una registrazione effettuata già nell’ottobre 2019, immediatamente dopo i recital di Vienna, del San Carlo e di Lisbona, presso gli studi del Mozarteum di Salisburgo e da tale istituzione promossa e prodotta. L’omaggio a colui che, affiancando fin dal 2011 Francesco Mariani, è stato il mio insegnante, era già presente nei programmi di questi concerti che in parte erano stati incisi e anche trasmessi in diretta EuroRadio da RTP 2, l’emittente nazionale del Portogallo. La presenza di autori prediletti da Paul Badura-Skoda, l’aver lavorato queste esecuzioni direttamente con lui negli ultimi incontri che la sua malattia ci ha concesso fino al mio recital viennese del settembre 2019 sponsorizzato da BankAustria, l’aver consacrato il programma al San Carlo di Napoli proprio nel giorno di quello che avrebbe dovuto essere il suo novantaduesimo compleanno, hanno portato alla scelta del titolo Hommage per l’album. Ho voluto ammiccare a un tributo di cui lo stesso Badura-Skoda si fece latore nei riguardi del leggendario Dinu Lipatti: un giovanissimo Badura-Skoda ebbe la ventura di assistere ad una delle ultime presenze pubbliche del grande artista romeno, nella cornice del Festival de Besançon in Francia: ne rimase folgorato, mi raccontava quando ero suo assistente a Villa Medici, ma non ebbe il coraggio di avvicinarlo e rivolgerglisi. Quando poi, divenuto a sua volta leggenda, Badura-Skoda fu invitato molti decenni dopo a Besançon, volle presentare lo stesso programma eseguito anni addietro da Lipatti. Il risultato fu Tribute to Dinu Lipatti, uno degli album più pregevoli di tutta la discografia di Badura-Skoda. Il mio Hommage vuole essere un più discreto e umile tributo al mio maestro viennese, un atto di devozione per la grande eredità che mi ha lasciato e per il dono costituito dalle tante e generose dichiarazioni pubbliche che ha rilasciato su di me. La prima parte del mio disco è un susseguirsi di visioni notturne: il Settecento pre-classico di Lodovico Giustini, che per me si riveste di risonanze e di mistero, è inteso in un legame ideale con le atmosfere lunari di una selezione di Préludes di Debussy e le pennellate dei Notturni op. 15 di Chopin, lavoro quest’ultimo dove la melodia sembra propagarsi come una fragranza che fuoriesca da una pregiata scatola di legni esotici. E proprio Chopin, autore amatissimo (come peraltro Debussy) da Badura-Skoda, che scrisse la sua op. 15 a Vienna, fa da portale per la seconda parte dell’album, dedicata a una delle tre ultime sonate di Haydn e alla monumentale op. 26 di Beethoven, il quale fu l’insegnante di Czerny, che è stato l’insegnante di Liszt, che fu maestro di Martin Krause, che ebbe per allievo Edwin Fischer, il quale fu il grande insegnante di Badura-Skoda.
GDS: Dove pensi di registrare, e su quale strumento? Talvolta, la scelta è dirimente e direttamente collegata ai contenuti prescelti, ai desiderata di timbro e suono: penso alla tecnica di ripresa del pianoforte di Manfred Eicher (ECM), o ad altre più tradizionali, con microfoni più lontani. In realtà la decisione in genere è determinata dal tipo di suono legato all’opera di un determinato autore, ma non certo in senso filologico (o, almeno, ‘non solo’ filologico).
Lorenzo Pone: Ho avuto la fortuna di potermi servire di un pianoforte assai speciale. Lo strumento in questione si trova a Salisburgo, uno degli Steinway D di quelli della generazione anni ’60, preparato dai tecnici secondo alcune mie specifiche richieste. M’interessa ottenere per quest’album, così come in generale nelle performance sia dal vivo che in incisione, un timbro caldo, che sia possibilmente traslucido e complesso al tempo stesso, e che mi consenta di usare le dita per cantare. Anche se la proposta del programma è assai variegata, per me vi è un sotterraneo legame che unisce partiture ed epoche apparentemente tra loro assai distanti, cosa che peraltro avevo già dichiarato in occasione del recital al San Carlo di Napoli. L’architettura apparentemente semplicissima del linguaggio squisitamente italiano di Giustini, in un brano come questo tratto dalla sua op. 1, sorta di atto di nascita del pianoforte, non può per me rendersi tramite la facile ricetta dell’evocazione cembalistica, cui purtroppo anche molti interpreti bachiani e scarlattiani oggi soccombono. Occorre portare questa musica al di là di ciò che è sulla carta, esplorando ciò che la mera notazione si limita a suggerire o, per lo meno, che io credo suggerisca. Più che l’agogica, è il suono a dover creare varietà e interesse e l’uso della risonanza, in tal senso, è molto più filologicamente corretto di quanto si creda: gli strumenti antichi, sia il cembalo che il fortepiano, risuonano assai e di una risonanza assai complessa. Ciò sia detto, in ogni caso, tenendo presente che la correttezza sul piano filologico non rappresenta in alcun modo, per me, un elemento rilevante dell’interpretazione musicale. La stessa visionarietà del timbro mi porta con tutta naturalezza da Giustini a Debussy e poi a Chopin, laddove per i classici viennesi energia e morbidezza sono fondamentali. Mi sforzo di ricercare un suono pluridimensionale, dove anche una semplice ottava possa risuonare di una sua interna polifonia a due voci, dove un accordo presenti sempre ben chiaro il suo centro melodico, anche laddove la voce rilevante non sia quella tecnicamente più semplice da portare in rilievo. Linea e timbro, in tal senso, fanno forma e fanno struttura. Aver avuto l’occasione di poter preparare lo strumento insieme al team di tecnici del Mozarteum mi ha senz’altro consentito un controllo assai organico sul prodotto finale, per la quale cosa devo ringraziare Cordelia Hoefer-Teutsch, la mia insostituibile insegnante nel corso degli studi al Mozarteum, la cui presenza in studio è stata tanto d’aiuto quanto discreta.
GDS: Hai dedicato tue performance ai contemporanei partenopei. So che al momento il tuo interesse va verso la musica da camera di Longo e Martucci. Cosa puoi dirmi dell’estetica di Martucci, un tardoromantico o un precursore?
Lorenzo Pone: La mia collega violinista Federica Tranzillo, campana come me e già allieva di Salvatore Accardo e, al Mozarteum, di Harald Haerzl, mi ha proposto l’incisione di un disco. Di comune accordo si è voluto scegliere dei contenuti che portassero un riferimento diretto alla nostra identità. Giuseppe Martucci viene spesso riduttivamente indicato come colui che avrebbe riportato in auge la tradizione strumentale italiana, mediante quello che si vuole per forza definire un aggiornamento su modelli tedeschi. In realtà tutto questo è scorretto, per quanto suggestivo: la tradizione strumentale in Italia non è mai morta e non ha mai subito flessioni in termini di qualità e Martucci, dal canto suo, per quanto in qualità di direttore d’orchestra e pianista concertista si sia reso promotore e interprete del pensiero musicale europeo del suo tempo (come, d’altronde Busoni e lo stesso Liszt del quale era amico e confidente), dimostra fin dalle sue composizioni giovanili uno stile assolutamente proprio e personale. La Sonata in Sol minore op. 22 che apre il progetto è difatti la composizione di un Martucci nemmeno diciottenne, lavoro elegante, con un primo movimento quasi elegiaco, leggero, raffinato, di un classicismo trasparente nello spirito di Scarlatti e di Cimarosa, ma calato in un impeto tutto romantico e già quasi crepuscolare (colore, quest’ultimo, che è tipico della sua produzione più matura). L’uso che Martucci compie dell’armonia e dell’arabesco difficilmente potrebbe far pensare a modelli tedeschi, sembrando semmai prefigurare (in quanto di pubblicazione precedente) le ambiguità, le fluttuazioni e le divagazioni inaspettate delle sonate per violino di Fauré e una certa trasparenza del più contemporaneo Saint-Saens. Il secondo movimento è di un classicismo davvero cimarosiano, paganiniano, con un episodio centrale dove il colore, il timbro e l’indagine armonica diventano ragione costitutiva della musica stessa e fanno pensare, addirittura, al Poulenc più elegiaco. Il movimento finale è propulsivo e stacca bene rispetto al febbrile melodismo del movimento interno: l’esplorazione armonica procede per episodi le cui connessioni sono audaci e aprono la scrittura ad un orizzonte in cui uso del colore e struttura formale coincidono. Martucci è un precursore, ma lo è in un’accezione che lo riguarda come interprete e come figura istituzionale. Il suo ruolo, accuratamente voluto, è stato quello di un catalizzatore di energie, il demiurgo di una rete di contatti nella neonata Italia unificata tra musicisti e tra questi e le istituzioni musicali, espressioni queste ultime del desiderio del Paese di dotarsi di una struttura identitaria e culturale di elevata e ben riconoscibile qualità. Il lavoro di Martucci, ordinato e costante, ha portato alla creazione di una classe di musicisti d’eccellenza i quali, oltre che interpreti e autori, sono stati didatti e direttori di istituzioni concertistiche e di formazione musicale. La rete fortemente voluta da Martucci fu trasversale, annettendo riviste e società di concerti: essa legò l’Ottocento al Novecento e fu la pietra miliare di quella che nel XX° secolo fu la moderna identità culturale dell’Italia post-bellica: la stessa creazione delle Orchestre della Rai, tutte a loro modo (quella di Napoli in specie) poli di eccellenza internazionale, è emanata dalla prima spinta propulsiva di Martucci ed è perdurata fino allo scempio compiuto, probabilmente per volontà politica, all’inizio degli anni ’90 con la chiusura dell’Orchestra della Rai di Napoli la quale affondava le sue radici nella leggendaria Orchestra Alessandro Scarlatti, creata dagli eredi spirituali di Martucci, e che soccombeva al sopruso insieme a quelle di Roma e Milano. Martucci fece per l’Italia quel che successivamente è avvenuto in Germania, (e in parte in Francia), la cui forte identità musicale si basa anche oggi sulla rete, sull’interconnessione tra artisti e istituti e sul rifuggire il monadismo dei coltivatori di orticelli privati. Voglio pure aggiungere che la mia adesione al progetto di Federica Tranzillo è dovuta anche all’affetto che mi lega alla figura di Martucci: fu l’altro mio grande insegnante, il primo, Francesco Mariani, che come un padre mi ha seguito fin dal 2006 e che ha reso possibile il mio incontro con Badura-Skoda, che mi introdusse a Martucci, ai suoi lavori pianistici e che fortemente mi ha spinto a trattare questa materia musicale con lo stesso approccio dovuto a tutto il repertorio.
GDS: Achille Longo è il figlio del celebre Alessandro, che fu invece allievo di Cesi e Serrao al Conservatorio di Napoli, dove insegnò fin dal 1897. Alessandro fondò L’arte pianistica. Proprio sulle pagine di quella rivista dialogò serratamente con e contro Attilio Brugnoli, in difesa della scuola pianistica napoletana. Scegli di suonare Achille, puoi raccontare i motivi di questa scelta?
Lorenzo Pone: Se la proposta di Martucci è venuta da Federica Tranzillo, l’idea di affiancarvi nel progetto Achille Longo è stata mia. Vogliamo rendere evidente quanto Martucci sia stato una cerniera tra due mondi e in che modo la generazione successiva (Alessandro Longo, padre di Achille, era contemporaneo di Martucci) abbia raccolto e declinato a suo modo la di lui eredità. Achille Longo rappresenta la generazione della disillusione post-bellica, la quale in tutto il continente avvertì l’esigenza di un linguaggio scarno e scabro, rispetto a quello della generazione precedente, la generazione di Martucci e del padre Alessandro, del tutto figlia (com’era giusto) dell’Idealismo e del Positivismo di marca romantica. Achille Longo, come Mario Pilati, come Franco Alfano, come Bruno Mazzotta, Vincenzo Marchetti, Terenzio Gargiulo, Enzo de Bellis, Alfredo e Antonio Cece, Emilia Gubitosi, Franco Michele Napolitano, Aladino di Martino, sono rappresentanti del Novecento europeo, laddove Martucci, Alessandro Longo, Alfonso Rendano, Antonio Savasta, Francesco Cilea, tutti autori di corpus nutriti di musica da camera, di trii, di quintetti, hanno rappresentato, insieme ad altri autori della scena di allora, la generazione romantica e tardo romantica. Unire i due volti della cultura e del pensiero musicali europei in questo progetto, ci è sembrato logico e giusto, ancorché interessante in quanto la Sonatina in Mi maggiore di Achille Longo offre spunti interessantissimi. Un’incisione autorevole, con Aldo Ciccolini al pianoforte, esiste, laddove della Sonata di Martucci non esistono registrazioni che si distinguano per personalità. Longo fu didatta e anche figura istituzionale, ma il profilo che fuoriesce dalla sua attività di compositore appare ben più originale rispetto a quello dell’insegnante che i suoi testi scolastici ci hanno tramandato. È un autore contaminato, ricco di sottointesi e di rimandi, dotato di un pregevole senso della concisione e dell’economia di mezzi, che ha saputo organizzare una innegabile vena melodica di slancio in un linguaggio assai personale: il lavoro che proponiamo nel disco ha il suo dato gestaltico in una scala di Mi maggiore col quarto grado alterato, in sostanza uno degli antichi modi di origine greca, filtrato, come molti altri, nella tradizione musicale popolare italiana e non solo. Questa caratteristica rende il materiale tematico della Sonatina assai fresco, gustoso, piccante e, dall’inizio alla fine, è usato da Longo con incredibile abilità nel creare organicità, compattezza e coerenza, attraverso il ricorso ad una scrittura limpida, scorrevole e che si dimostra veramente attenta alle esigenze dei due strumenti impiegati. Va da sé che un simile progetto dovrebbe trovare il suo posto, per tornare al discorso della rete tra musicisti e istituzioni musicali e culturali, in un disegno ben più ampio che comprenda la sistematica produzione e distribuzione di progetti riguardanti altre figure di musicisti italiani, sia della generazione di Martucci, sia di quella di Achille Longo, nonché una coerente organizzazione editoriale che lavori sulle definitive biografie artistiche e sull’apparato critico ad esse indispensabile. In Francia questo avviene regolarmente, senza alcuna discriminazione di statura artistica riguardo le figure di musicisti la cui memoria beneficia di questo apparato. Presentare questi due territori di ricerca nello stesso album vuol essere una proposta, un dare il La, senza la pretesa di indicare una strada, piuttosto suggerendola, come ho già tentato di fare, per quel che mi riguarda, sul piano divulgativo con articoli e saggi dedicati ad autori contemporanei. Del resto il panorama contemporaneo italiano è ricchissimo e vario: la qualità di certo non latita, così come ampia è la pluralità della proposta dei linguaggi. Il nostro Paese produce compositori e interpreti di notevole personalità, cosa ad oggi abbastanza rara: penso a Beatrice Rana, a Filippo Gorini ai quali ho avuto il piacere di venir associato in un recente articolo del critico francese Louis Delvincourt, corrispondente a New York per Le Monde, ma anche compositori come Giulia Lorusso, Claudio Panariello, ed altri interpreti quali Clarissa Bevilacqua, violinista già vincitrice del più recente Mozart Competition a Salisburgo, Lorenzo Dainelli, già primo clarinetto in Germania. Vorrei aggiungere che un sentito ringraziamento va sicuramente al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, al Direttore M° Carmine Santaniello e in particolare alla sua Vice, la Professoressa Marta Columbro, la quale, in collaborazione col curatore della Biblioteca, Prof. Cesare Corsi, ha reso disponibile una rara edizione della Sonatina di Achille Longo, il che ci ha consentito di accedere ai materiali.
GDS: Vorrei sapere cosa pensi del quadro che fa Piero Rattalino, e che riporto anche in una mia monografia specialistica (G. DE SIMONE, Il Pianoforte, materiali per lo studio, Napoli 2008, Liguori Editore). Rattalino si riferisce ai differenti orientamenti degli allievi di Cesi: «A destra restò Alessandro Longo, uomo d’ingegno e abile didatta, ma anche carattere bizzoso, facile ai risentimenti personali, impulsivo. Il Longo, che insegnando praticava parte di quanto si andava predicando sull’altra sponda, per spirito polemico si diceva contrario ad ogni innovazione, riguardando quali futili e inutili cose come le ricerche spregiudicate sulla natura della tecnica. A sinistra andò Florestano Rossomandi, che non era una tempra d’indagatore, ma un uomo pratico, sagace, prontissimo nel capire e far sue le conclusioni delle nuove teorie e nello sfruttarle abilmente senza uscire del tutto dalla tradizione della scuola di Cesi. Al centro si potrebbe collocare Giuseppe Martucci, che non s’imbarazzò molto di questioni tecniche ma fu invece, soprattutto, un maestro di stile. Dalla sua scuola uscì però il più colto dei didatti italiani del tempo, Bruno Mugellini, che sollevò in Italia la questione dell’insegnamento della tecnica. Il Mugellini, dopo lunghe e travagliatissime esperienze, arrivò a fissare i suoi concetti sulla tecnica verso il 1907 e cominciò a propagandarli, suscitando un putiferio di veementi proteste» (P. RATTALINO, Le grandi scuole pianistiche, Milano 1992 – Ricordi).
Lorenzo Pone: Devo dire che la mia formazione pianistica, anche considerando i miei paralleli studi di composizione, è stata assai varia. L’ambiente viennese mi ha influenzato non poco, dapprima, come è ovvio, attraverso Badura-Skoda e il legame con un mondo scomparso che lui ha rappresentato per me e, in quella che è stata la fase finale del mio perfezionamento al Mozarteum, tramite Cordelia Hoefer-Teutsch, la cui incredibile esperienza si è perfettamente e con grande discrezione innestata sulla mia personalità in un certo senso già formata all’epoca del nostro incontro. Resta il fatto che la paternità più diretta che io riconosco, insieme a quella di Badura-Skoda, appartiene a Francesco Mariani. E Mariani è a sua volta un raccoglitore di vagliate esperienze provenienti direttamente dalla scuola pianistica napoletana che ha avuto la fortuna di poter abilmente contaminare con altre: studi iniziali con la grande Celeste Capuana, passando attraverso la prestigiosa scuola di Vincenzo Vitale e dei suoi allievi diretti fino a Bruno Canino, continuati a Parigi con Alexis Weissenberg e conclusi da una nutrita serie di decisivi incontri con la grande pianista russa Tatjana Nikolaeva (quest’ultima, insieme a Elisabeth Leonskaja, insegnante anche di Cordelia Hoefer-Teutsch). Mariani mi ha reso disponibili gli strumenti tecnici e ha instillato in me la consapevolezza del suono, la passione per la ricerca e la cura del timbro e ha saputo insegnarmi come veicolare la mia personalità e la mia natura nell’interpretazione del testo musicale: senza di lui, nulla di ciò che mi è accaduto sul piano della carriera si sarebbe verificato. Mariani e Badura-Skoda si sono incontrati a Napoli nel 2013, in mia presenza, ed il loro scambio fu addirittura caloroso, saldando così una continuità d’intenti e di cultura. Devo dire che negli anni di perfezionamento a Salisburgo ho potuto constatare quanto e come l’eredità pianistica napoletana, che è alla base stessa del mio pianismo, fondato grazie alla paziente opera didattica di Mariani, sul rilassamento muscolare e sull’uso combinato e mai dissociato del peso e dell’articolazione, mi abbia messo in grado di essere cosciente sin dal primo approccio alla partitura del suono col quale desidero plasmarne l’interpretazione. E non solo: ho ritrovato e riconfermato la straordinaria efficacia dei principii della scuola pianistica napoletana i quali, quando ben veicolati e associati ad un affinamento delle risorse espressive ancorché tecniche, mettono un pianista in condizioni di affrontare con esiti notevoli qualsiasi repertorio. Devo rimarcare che gli altri modelli tecnico-interpretativi nei quali mi sono imbattuto una volta varcate le Alpi, pur mostrando ciascuno delle interessanti particolarità (che in ogni caso sono tutte rinvenibili nei contenuti del pensiero pianistico napoletano), prestano inevitabilmente il fianco al rinvenimento di limiti, debolezze e incompletezze che, con mia grande sorpresa, sembrano non destare perplessità in coloro i quali, pur a loro volta sorpresi dall’efficacia di approccio della scuola napoletana, non intendono porsi certe domande. Tutto questo mi ha portato ad una lunga riflessione e a una personale riconsiderazione degli esponenti della scuola pianistica napoletana: grazie alla preziosissima documentazione quasi sempre di origine Rai, ora resa fruibile dal web, dal mai giustamente compreso e valutato Sergio Fiorentino, ad Aldo Ciccolini (che Badura-Skoda definiva “un genio assoluto”), al sommo Riccardo Muti, alle grandissime Maria Tipo e Annamaria Pennella, passando per la leggendaria Kiki Bernasconi il cui recente ritorno è un dono inestimabile, a Bruno Canino, Paolo Spagnolo, il raffinatissimo Tito Aprea, la grandissima Laura de Fusco e lo stesso Vincenzo Vitale (nelle poche registrazioni che di lui esistono), fino a rarità quali Carlo Bruno e Aldo Tramma che, a pochi anni di distanza, eseguirono magistralmente un capolavoro sconosciuto quale il Concerto per pianoforte e orchestra di Albert Roussel (con Franco Caracciolo alla guida dell’Orchestra Alessandro Scarlatti della Rai di Napoli), ci si può secondo me rendere conto che, tra le due grandi ramificazioni degli eredi di Cesi, per intenderci i due snodi Alessandro Longo e Florestano Rossomandi, i tratti comuni e le condivisioni sono più o se non altro più importanti delle differenze tra vedute e delle inimicizie. Il pianismo napoletano, che poi costituisce grandissima parte di quello italiano e, non unicamente per proprietà transitiva, di quello occidentale, porta in sé l’assunto della lucidità, di quella rilassatezza dell’approccio tastieristico che è un piacere per gli occhi ancor prima che per l’udito, un pianismo duttile e al tempo stesso rigoroso. Lo scritto di Rattalino, autore sempre piacevole da leggere, potrebbe a mio avviso risentire, in riferimento alla citazione di Alessandro Longo, di una certa parzialità da parte dello stesso Rattalino, (in ottima compagnia con Rudolf Serkin e Paul Hindemith), per Vincenzo Vitale, parzialità peraltro fondata, e giustamente, sulla elevatissima statura artistica del grande didatta e sulla prima grandezza del suo apporto al pianismo internazionale. Lo stesso Arturo Benedetti Michelangeli, così come non a caso Ciccolini, sono portatori di un pianismo la cui intensa bellezza risiede anche, pur se non solo, nella statuaria razionalità del loro gesto tecnico-espressivo. La stessa natura è presente, con spiccata esplosività, in Maria Tipo, laddove l’inarrivabile Fiorentino è un genio inclassificabile, grande umanista, di un umanesimo che vive interamente nel suo approccio alla tastiera e alla letteratura pianistica. E Tito Aprea, sulla stessa scia di Fiorentino, è pianista di squisita eleganza e di aristocratica misura, laddove la sensualità incandescente di Annamaria Pennella fa da contraltare allo scavo, alla serietà, al profilo intellettuale di Laura de Fusco: si confrontino, a tal proposito, le rispettive incisioni, sempre con l’Orchestra della Rai di Napoli, del Concerto in La minore di Schumann. Approcci differenti, gli uni umanistici e pur mai inclini a sbavature di gusto, gli altri razionali e pur mai, e sottolineo mai frigidi come alcune orecchie disattente vorrebbero, contribuiscono per me (e non si contraddicono né si annullano a vicenda) nel delineare un affresco di affascinante varietà e ricchezza. Gli anni di Salisburgo mi hanno permesso di sentirmi fiero e fortunato per il fatto di appartenere anche alla scuola pianistica napoletana.
GDS: Approfondiremo altrove le nostre diverse opinioni su scuole e pianismi… Ma ora veniamo ai concerti. Purtroppo l’emergenza virale ha impedito e costretto al silenzio la proposta musicale dal vivo. La diffusione di video ‘a distanza’ contraddice a mio avviso la natura della comunicazione artistica, dacché se tecnicamente e qualitativamente risulti inferiore a quella digitale non compressa, appare come un surrogato ulteriore al disco. A parte gli aspetti emozionali, il discorso dovrebbe aver riguardo alla natura del suono in sé, e alle vibrazioni che ne conseguono. Prevedi un ritorno sulla scena, e in quali luoghi?
Lorenzo Pone: Ne parlavo giorni fa, durante una cena in occasione del mio compleanno, con Hans Graf, direttore della Huston Symphony, della Royal Philarmonic di Londra e, attualmente, a Singapore. Musicista della generazione di Badura-Skoda, molto vicino al mio background culturale (ha diretto solisti come Maria Tipo, peraltro proprio qui a Salisburgo, nonché spesso l’Orchestra Scarlatti della Rai di Napoli), Graf conveniva con me sul fatto che le performance in video non sono concerti. Il concerto si nutre della presenza del pubblico vivo, è un evento che si produce nei teatri, negli auditorium e che se si vale della trasmissione a distanza, online, televisiva o radiofonica che sia, esiste in ogni caso indipendentemente da qualunque altro mezzo. Non posso nascondere che l’emergenza pandemica abbia avuto un impatto, anche se si spera temporaneo, sulla mia vita di concertista: una lunga tournée di concerti tra Svizzera, Belgio e Spagna, che doveva culminare con due masterclass che avrei tenuto a Valencia e a Torrént e in un recital finale a Madrid, è stata rimandata; rimandata al 2021 la mia presenza alla Semana Internaçional de Piano de Obidos, in Portogallo. Resta in piedi il mio corso a Granada, laddove i concerti in Svizzera, in Spagna e probabilmente a Parigi avranno luogo il prossimo anno. Annullata la mia presenza alla Berliner Philarmonie con il Concerto in Re minore KV 466 di Mozart, idea che forse, ma è ancora tutto da vedersi, verrà ripresa a Salisburgo nel 2022 e, probabilmente, anche a Lisbona e in Sud America. All’inizio della quarantena non mi ero sentito particolarmente toccato dal disagio: ho utilizzato il maggior tempo a disposizione per studiare copiosamente nuovo repertorio, per comporre, per rivedere composizioni già esistenti. Devo dire che quando poi, nelle settimane più recenti, ho toccato con mano cosa volesse dire vedersi annullare o rimandare a date incerte concerti, tournée, corsi, la cosa ha avuto sul mio morale un impatto severo. So di non parlare unicamente per me, ma per tutti i miei colleghi la cui attività concertistica costituisce l’ossatura della propria esistenza, quando dico che il palcoscenico mi manca, mi manca il senso del rischio, manca la preparazione del repertorio di un gruppo di concerti, quel rapporto intimo e quotidiano con i programmi e certamente manca l’adrenalina che si prova nell’andare in scena di fronte alla sala gremita, quella scarica di emozioni che, al termine di un concerto ti fa pensare che ne faresti un altro proprio ora, subito, adesso. Non sono mancate, anche in tempo di epidemia, occasioni di far musica. Penso a due eventi in particolare che mi hanno impegnato in questi mesi, l’uno di profilo quasi domestico, l’altro più ufficiale. Con i miei colleghi ed amici Clarissa Bevilacqua al violino e Lorenzo Dainelli al clarinetto, siamo riusciti a produrre un repertorio di trascrizioni liederistiche, curate da me e dallo stesso Dainelli, per i nostri tre strumenti. L’operazione ha ricevuto un lusinghiero riscontro e ci ha in qualche modo suggerito progetti futuri sui quali lavorare. Il nostro Mitternachtskonzert, ovvero un concerto di mezzanotte, è stato realizzato nell’arco di diverse settimane durante la quarantena, registrato nelle ore notturne con i mezzi che avevamo a disposizione, ma con un impegno certosino nella cura del dettaglio interpretativo. L’intera operazione è stata in un certo senso plasmata dal tempo che abbiamo vissuto e stiamo vivendo: le nostre trascrizioni, che sono anche in certi casi delle vere rielaborazioni di lavori vocali da camera di Brahms, Schumann, Schubert, Leoncavallo e miei personali, vogliono essere un percorso sui temi della nostalgia, dell’interrogarsi, della consolazione, dell’intimità e finanche dell’austerità che le condizioni attuali della vita umana sembrerebbero sempre più auspicare quali modelli di una ritrovata naturalità dell’esistenza. Quali progetti più recenti e di natura ufficiale, si tratta veramente di pochi giorni fa, sono stato felice di realizzare delle sessioni di registrazione commissionatemi dalla Shigeru Kawai, in particolare la sede di Madrid per cui avrei dovuto tenere un recital poche settimane or sono, la quale ha deciso di commutare in una serie di concerti online gli eventi che avrebbero dovuto aver luogo di fronte al pubblico della capitale spagnola. Per l’occasione ho potuto avere a mia disposizione uno strumento eccellente, situato in un magnifico studio di registrazione immerso tra le montagne, ad Hallein, nei dintorni di Salisburgo. La proposta riprende Giustini e Debussy con un focus più ravvicinato e senz’altro più intimo rispetto alla sala da concerto, cercando di rinvenire parentele tra due linguaggi appartenenti ad universi lontani. Forse la condizione di dover produrre musica a distanza, di registrare in sale senza pubblico, di ritrovare la dimensione della Hausmusik, non ha portato a sforzi perduti; forse ci ha persino permesso di riscoprire un’intimità dimenticata, di riappropriarci di una dimensione umanistica del far musica, in special modo musica d’insieme. Non dico di no. Resta il fatto che la musica si fa dal vivo nei teatri, negli auditorium, nelle stagioni concertistiche. Restringere le platee, diradare gli eventi, ridurre gli organici non può che portare unicamente a un pericoloso impoverimento: è come indossare la mascherina davanti al naso, ci si sente male perché comincia a mancare l’ossigeno. Ho ascoltato politici di diverse Nazioni asserire che le misure riduttive sarebbero volte ad assicurare libertà alla musica di continuare a esistere. Dico però che finché non torneremo alla normalità, la sola libertà consentita alla musica e ai musicisti sarà quella dell’ora d’aria per il carcerato. O, peggio, dell’ultimo pasto per il condannato.